In occasione di Milano Museo City sono andata a visitare il Museo della macchina da scrivere in zona Isola.
Sono subito rimasta affascinata sia da quanti pezzi erano lì ben ordinati davanti ai miei occhi, si parla di quasi mille, sia dall’entusiasmo con il quale i curatori del museo raccontavano, eh sì perché dietro ad ogni macchina da scrivere, c’era una storia da raccontare, una persona da conoscere.
Ho avuto anche l’onore di conoscere il Sig. Umberto, classe 1935, che ha dedicato parte della sua vita a dare ospitalità alle macchine da scrivere: non è un cimitero perché sono ancora ben funzionanti, ma mi piace pensare che sia la casa di riposo delle macchine da scrivere, dove queste signore si sono ritrovate per raccontarsi la loro vita e per coinvolgerci nelle loro passate avventure, un riposo meritato dopo tanto lavoro.
Le signore scriventi arrivano da tutto il mondo, anche dalla lontana Cina e hanno tutte una certa età, ma sprizzano ancora fascino da ogni tasto.
Il Sig. Umberto le ama tanto, tutte e ha scritto a loro una commuovente lettera che trovate appena entrate nel museo: il suo amore è così forte che è preoccupato per loro, per il loro futuro e ha fatto quindi richiesta per donarle al Comune di Milano a patto che trovino alle sue macchine da scrivere un nuovo spazio espositivo, una nuova accogliente
casa di riposo.
Speriamo Sig. Umberto, glielo auguro con tutto il mio cuore.
Credo che scrivere a macchina, sentendo quel particolare rumore simile a un sonoro TIC sotto ai polpastrelli che battono i tasti, sia sicuramente più affascinante ed emozionante che scrivere al PC: un po’ come il gesto di tirare fuori una sigaretta dalla sua scatola,
metterla in bocca, accenderla con l’accendino e fumarla, rispetto alle sigarette
elettroniche.
Si scrive comunque, si fuma comunque, ma il gesto è completamente diverso e dà
soddisfazioni differenti.
In ogni caso ci tengo a sottolineare che scrivere non fa male, mentre fumare…
Ma torniamo al museo della macchina da scrivere.
Durante la visita, il mio sguardo, come per magia, si posò su una vecchia macchina da scrivere nera: ce ne erano tante simili, ma, mi perdonino le altre, avevo occhi solo per lei.
Era una Underwood, maneggevole, abbastanza piccola, portatile nella sua cassetta, americana, con 28 tasti per 84 caratteri.
Chiesi con tanta curiosità la sua storia: mi dissero che fu acquistata tanti anni fa in un vecchio bar in centro a Milano, era lì tutta sola, quasi abbandonata ed era stata lasciata da un giornalista americano per pagare il conto in quel bar.
L’americano era il grande Ernest Hemingway, che era affezionato cliente proprio di quel locale, quando veniva a Milano per rivedere il vecchio ospedale della Croce Rossa, poco distante, in cui era stato ricoverato per tre mesi dopo essere stato ferito nella Prima Grande Guerra, come giornalista inviato sul campo di battaglia in Europa.
Inutile dirvi che Ernest è uno dei miei scrittori preferiti e toccare quei tasti, battuti anche da lui, è stata per me una grande emozione.
Non si offendano le altre macchine da scrivere: ad esempio la Continental di Luis Sepulveda o la macchina da scrivere di Camilla Cederna, tutta rossa fiammante, tutte estremamente belle.
Alla fine della visita il Sig. Umberto, che è anche scrittore, mi ha fatto una dedica su un suo libro, una dedica di quegli uomini di altri tempi, che è ormai difficile trovare al giorno d’oggi:
“Gentilissima Sig.ra Stefania. Con stima e simpatia. Umberto”.